Uno dei temi politici oggi più controversi e divisivi riguarda certamente il tipo di gestione del servizio idrico delle nostre città
Tuttavia il tema non è certamente nuovo dato che lo sfruttamento razionale delle risorse idriche costituisce, praticamente da sempre, uno degli elementi imprescindibili di connotazione fisica e simbolica di un territorio.
Per lunghissimo tempo in Sicilia l’uso delle acque per l’approvvigionamento umano e animale, seppur con un non trascurabile margine di incertezza del diritto, appare garantito rientrando a pieno titolo tra i cosiddetti “usi civici”, sanciti e regolati dagli statuti comunali.
Diverso invece l’approccio per gli usi agricoli e come fonte di energia per le macchine idrauliche, come mulini e gualchiere, in cui prevaleva una concezione essenzialmente privatistica e patrimoniale della risorsa. (F. D’Angelo, Controllo sull’acqua in Sicilia: una questione politica, 2013) Se per l’approvvigionamento umano ed animale non erano infatti indispensabili particolari reti di distribuzione, essendo possibile l’approvvigionamento direttamente dai corsi d’acqua o dalle fonti all’interno o nei pressi degli abitati, l’uso dell’acqua come forza motrice dei mulini richiedeva invece cospicui investimenti sia per gli opifici che per le lunghe condotte necessarie.
A Siracusa, ben prima dell’introduzione del mulino ad acqua, la necessità di convogliare le copiose acque del bacino idrico dei monti iblei è percepita tuttavia già nel V sec. a.C., quando venne realizzato il canale oggi conosciuto come Galermi, un’opera tecnica di eccezionale rilevanza, lunga circa 27 km.
Con il tramontare dei fasti della Siracusa siceliota e il netto ridimensionamento della sua popolazione è probabile che, già dal basso medioevo, la città non fosse più in grado di mantenerne l’efficienza.
L’acquedotto, che non appare citato dalle fonti medioevali, riappare solo alla metà del Cinquecento quando Tommaso Fazello ne descrive l’origine e il corso, definendolo “condotto della bella femmina”.
(De rebus Siculis decades duae, 1558) La descrizione del Fazello è importante perché documenta lo stato dei luoghi precedentemente alla concessione che il senato siracusano, nel 1576, ne fece al barone di Sortino Pietro Gaetani.
A partire da quella concessione, e per quasi tre secoli, la storia dell’acquedotto è infatti intimamente legata a quella della famiglia Gaetani che, in cambio della garanzia di curarne la manutenzione, ottenne di poter edificare dei mulini che ne sfruttavano la considerevole portata.
Mutatis mutandi, secondo la storiografia civica ottocentesca, alimentata dall’aspro atto d’accusa mosso da Tommaso Gargallo, la concessione ai Gaetani, in una fase in cui “la prepotenza feudale era allora nel suo maggior vigore” rappresentava nient’altro che “una tirannica usurpazione”.
(Memorie patrie per lo ristoro di Siracusa, 1791) Paradossalmente ancora oggi, utilizzando chiavi di lettura distorte, si stigmatizza la scelta del Gaetani di costruire quei mulini proprio “nella delicata cavea del Teatro Greco”.
In realtà, come sempre, bisognerebbe leggere il contesto in cui nacque quella concessione e magari provare a comprenderne le ragioni secondo una cultura, che non è certamente più la nostra, ma che diversi studi oggi disponibili possono aiutarci a comprendere meglio.
Dato che punto fermo storiografico della questione sembra rimanere ancora l’atto d’accusa del Gargallo cerchiamo di ricostruirne la vicenda attraverso la sua opera più conosciuta e controversa.
Innanzitutto le ragioni della concessione sembrano oggettive, e deve riconoscerlo lo stesso Gargallo, la città non aveva un numero sufficiente di mulini “la qual cosa riusciva oltremodo incomoda al popolo” inoltre non era in grado di affrontare le spese necessarie a riparare l’antico acquedotto, oramai pressoché inservibile.
Il Gargallo dapprima sembra giustificare gli amministratori del tempo: “il magistrato civico avrebbe voluto riparare a quest’inconveniente tanto pernicioso al popolo… ma costretto da tali circostanze si risolse a fare un contratto coll’anzidetto Barone” tuttavia successivamente non esita ad avanzare il sospetto che questi fossero “buoni amici del Signor Barone, o intimoriti dalla sua potenza”.
Più avanti, non usa mezzi termini e definisce l’atto “nausoeosamente favorevole al Gaetani, nausoeosamente in tutto contrario alla città” e su questo si concentra dichiarandosi convinto della sua nullità.
Le ragioni di tale nullità andavano ricercate in almeno tre punti: l’acqua non apparteneva al barone di Sortino, il patto sottoscritto risultava leonino in quanto “uno dei contraenti acquista tutto, mentre l’altro cede tutto”, infine per l’incapacità a contrarre dei giurati del tempo che “non avevano, ne potevano mai avere, la facoltà di alienare i diritti della sovranità”.
Dopo aver provato a demolire la legittimità stessa dell’atto di concessione, il Gargallo avanza ulteriori accuse a carico degli eredi del Gaetani.
Non consentivano l’uso delle acque del canale dopo che queste avevano animato i mulini “avendo fatto aprire immense voragini di tratto in tratto, nelle quali se ne fa perire un’incredibile copia”, inoltre pretendevano di impedire la costruzione di nuovi mulini nel territorio della città.
Se i feudatari di Sortino non erano certamente degli “stinchi di santo” e alcune considerazioni sollevate dal Gargallo sembrano aver una certa solidità almeno in riferimento al diritto di privativa, altre appaiono delle evidenti forzature che non trovano riscontro nella cultura giuridica del tempo.
Prima tra tutte l’asserita natura pubblica dell’acqua, che in età feudale riguardava, tutt’al più, solo i fiumi navigabili. Altre considerazioni sembrano più che altro illazioni come la connivenza degli ufficiali cittadini al barone di Sortino, altre probabilmente dettate solo da scarsa conoscenza della morfologia del corso d’acqua, come nel caso delle “voragini” aperte dai Gaetani.
“Dimentica” inoltre di citarne l’impegno finanziario nel riparare i tratti dell’acquedotto, danneggiati dal terremoto del 1693. Tutte queste incongruenze non rappresentano però un problema se si tiene conto che il marchese di Castellentini non scrisse un trattato giuridico o un testo scientifico, ma un’opera politica che si inseriva a pieno nel clima del tempo.
Le sue erano motivazioni ideologiche, non doveva essere obbiettivo né trovare soluzioni, quanto piuttosto sostenere l’azione riformatrice del sovrano e del suo primo ministro, l’inglese John Acton.
Si sentiva un protagonista della modernità, il suo compito era quello di abbattere le “barbarie” del passato.
Foto tratta da:
https://ponir.mit.gov.it/contest-creativo-2023/foto-2023/165-water-street
di Marco Monterosso
© E' VIETATA LA RIPRODUZIONE - TUTTI I DIRITTI RISERVATI