Secondo lo Scobar il monastero siracusano di San Pietro di Tremilia, fu fondato, dal vescovo Stefano, che visse a metà del VI secolo. “Stephanus aedificavit Ecclesiam S. Petri de Trimillio” (L. C. Scobar, De rebus praeclaris Syracusanis, 1520)
Secondo Agnello “La costruzione della chiesa, almeno nel suo organismo basilicale, andrebbe posta tra la fine del V e i primi del VI secolo”. (G. Agnello, Siracusa Bizantina, in: “Per l’arte sacra” Fasc. 2, Ano VIII, 1931)
Nel piano paesaggistico della provincia di Siracusa (scheda 735) “la basilica bizantina di forma tricora, inglobata nella villa Bonanno”, sarebbe invece databile al IV secolo.
In ogni caso alla fine del VI secolo il complesso monastico benedettino risulta certamente già ben radicato nel tessuto religioso siracusano, essendo citato in una lettera, di S. Gregorio Magno, del 596-97. A causa di contese sorte tra i monasteri di S. Pietro e di S. Lucia, per la delimitazione dei confini delle relative proprietà terriere il Pontefice scriveva, al vescovo siracusano Giovanni, per rimettere la soluzione della lite al giudizio di un agrimensore ecclesiastico. Il Papa esprimeva l’augurio che, tra l’abate Cesario di S. Pietro e l’abate Giovanni di S. Lucia, potesse trovarsi una formula conciliativa, ispirata a sensi di giustizia e di carità, al fine di eliminare ogni motivo di futuro dissidio. (Sancti Gregorii Magni opera, 1770)
Durante il VII secolo il monastero, a seguito dell’ellenizzazione del culto, conseguente alla conquista bizantina, dovette passare alla regola di S. Basilio e al rito greco. A quel tempo è documentato infatti come suo abate il monaco Teofane, che intervenne al III concilio ecumenico di Costantinopoli, dove fu eletto patriarca di Antiochia, in sostituzione dell’eretico Macario.
Nel IX secolo l’invasione araba oscurò la gloria e i fasti del monastero, la cui memoria risorse solo agli inizi del XII secolo in seguito alla cessione, fattane dal Conte Tancredi d’Altavilla, al vescovado di Siracusa, da cui dipenderà sino alla fine del XVIII secolo. (R. Pirro, Sicilia Sacra, 1733).
Da allora non si riscontrano più notizie di rilievo sull’antico monastero che, già in declino nel XVI secolo e gravemente danneggiato dal terremoto del 1693, probabilmente nel corso del Settecento, fu inglobato all’interno di una struttura che fungeva da centro direzionale del grande possedimento. Edificio rimaneggiato, ampliato ed abbellito dai Bonanno di Maeggio conduttori prima e poi proprietari di Tremilia, dopo l’unità d’Italia.
Nonostante l’assenza di fonti antiche, una descrizione di quello che doveva essere il monastero di S. Pietro è possibile grazie agli studi di Giuseppe Agnello che nel 1931, riportandone la scoperta, sotto l’edificio dei Bonanno, ne esalta la bellezza e l’antichità: “Nessun altro monumento cristiano di Siracusa ha linee d’integrità così pure, nessuno che per la sua antichità possa reggere il confronto”.
“Il tempio risultava composto da tre navate con la mediana, larga m. 5,40 e lunga m. 11, che comunicava con le due laterali mediante una duplice serie di quattro areatine strette e profonde (larghe m. 1,50, alte m. 4) poggianti su pilastri. La massiccia volta a botte della basilica risulta alta m. 7,65. Nessuna traccia di finestre nei muri perimetrali, la cui esistenza non può tuttavia esser messa in dubbio per evidenti ragioni di aereazione e di luce, forse sarebbe agevole discoprirle sotto la massa degli intonachi, se ci fosse consentita libertà di esplorazione. I pilastri, tranne il primo a partire dall’ingresso, che misura m. 1,45, hanno eguali dimensioni (m. 1,20).
La struttura muraria dell’abside centrale, libera da intonachi, offre allo sguardo la sagoma robusta di enormi conci calcarei, saldamente fra di loro cementati. Non è improbabile che essi provengano dalla cinta soprastante delle grandiose mura dionigiane che, lungo il ciglione della vicina terrazza montuosa, son quasi del tutto scomparse. Alla basilica si accedeva dall’unica porta (larga m. 3) che si apre al centro della nave mediana, le due laterali sono moderne e il loro taglio risale certamente all’epoca della chiusura delle arcate
Il rilievo più caratteristico è dato dalla profonda nicchia che s’ingrotta, a mo’ di absidiola, nell’abside centrale: particolare architettonico che non trova riscontro nei monumenti cittadini dell’epoca e che è difficile precisare, data l’impossibilità di eseguire un esame accurato delle parti in vista, se appartenga alla primitiva struttura della basilica o debba anch’essa considerarsi come l’effetto di tardive innovazioni.
Le pareti nude, non presentano tracce di elementi decorativi; ma è da escludere, ove si collochi il tempio nella luce del suo momento storico, che sia sorto fra tanto desolante squallore. La sua sorte, in questo, non deve essere stata diversa da quella degli altri monumenti coevi, i quali sono a noi pervenuti nelle loro masse scheletriche, mentre le decorazioni sono scomparse, come foglie caduche dal tronco di un albero annoso. Il casuale scrostamento di un pezzo d’intonaco mi portava difatti alla scoperta di un brandello di affresco in uno dei pilastri della navata mediana: è evidente che esso non si può considerare come un elemento isolato, ma deve far parte del grande quadro pittorico della basilica, sul quale oggi purtroppo incombe un impenetrabile velario. La conoscenza degli affreschi potrebbe venirci in aiuto, col loro rilievo stilistico, nella determinazione della questione cronologica”. (Testo e immagini tratte da G. Agnello Op. cit.)
di Marco Monterosso
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