La presenza In Sicilia sud-orientale di numerose “cave” scavate dall’attività erosiva degli antichi fiumi ha certamente influenzato, più di altre aree, lo sviluppo di forme insediative di tipo rupestre
. Luoghi che, seppur di tipo trogloditico, si strutturarono in modo abbastanza simile ai centri costruiti sopra-terra e che funsero da centri di conservazione delle specificità culturali, sia laiche che religiose, dei luoghi in cui sorsero.
Proprio per questa particolarità gli insediamenti rupestri rappresentano dei veri e propri scrigni dove si sono conservate alcune tra le testimonianze pittoriche più antiche dell’isola.
La datazione di tali insediamenti è stata a lungo dibattuta tuttavia, nonostante le difficoltà di lettura dovute alla continua frequentazione dei siti rupestri per un lasso di tempo lunghissimo, la contemporaneità riscontrata tra le prime chiese rupestri presenti in Cappadocia, in Puglia e in Libia consente di datare anche quelle siciliane all’inizio del IX secolo, quando il Mediterraneo cominciò ad entrare nell’orbita islamica.
Tale ipotesi sembra trovare fondamento anche dall’analisi delle tracce relative alle prime frequentazioni e dal ricorso, in epoca normanna, a toponimi arabi per definire tali tipi di insediamenti.
Quest’ultima considerazione porta a considerare, con un discreto margine di certezza, le prime chiese rupestri come strettamente collegate alla ricristianizzazione della Sicilia, grazie all’invasione normanna, e quindi a rileggere il fenomeno del trogloditismo in chiave occidentale.
Esso infatti in Sicilia sembra frutto proprio dell’esportazione di una modalità insediativa tipica del meridione peninsulare (Materano e Puglia), grazie all’immigrazione nell’Isola di popolazioni provenienti da queste zone a seguito dei normanni.
La messa in luce di questa nuova e diversa rete di contatti mette in crisi dunque l’obsoleta immagine di una Sicilia bizantina di tipo essenzialmente rupestre, ipotizzata a seguito delle prime esplorazioni archeologiche di fine dell’Ottocento.
(Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Itinerari culturali nel medioevo siciliano, 2008)
Una preziosa testimonianza del nostro passato trogloditico è presente nell’area del Castelluccio di Noto zona in cui, sul finire dell’Ottocento, Paolo Orsi rinvenne i resti di un villaggio e di una necropoli preistorica che per la loro importanza finirono per denominare una delle facies dell’età del bronzo siciliana.
Successivamente, in età romana, la zona del Castelluccio era sede di una villa mosaicata intorno a cui, nell’alto medioevo, s’insediò un agglomerato rurale di cui l’Orsi ebbe modo di vedere alcune strutture.
(A. Messina, Le chiese rupestri del siracusano, 1979) Nella prima metà del XIV secolo la zona divenne invece sede di un castello posto a difesa di un importante asse viario che conduceva alla città di Noto.
Probabilmente, come in altri castelli coevi, anche quello di Castelluccio fini per riadattare un vicino ambiente ipogeico, probabilmente già utilizzato come oratorio, a cappella del castello stesso.
Per raggiungere la cosiddetta “Grotta dei Santi” bisogna affidarsi a guide qualificate o alla cortesia dei pochi abitanti della zona poiché al momento non è presente nessuna indicazione e vi si accede tramite una scaletta intagliata nella roccia presente nei pressi del cancello d’ingresso all’area archeologica.
Attualmente l’oratorio non è fruibile ma la chiusura con un cancello a barre consente di coglierne anche dall’esterno le caratteristiche salienti e ammirare la gran parte degli affreschi presenti.
L’ipogeo del Castelluccio è infatti caratterizzato da un ambiente unico a pianta circolare, diviso da un grosso pilastro centrale, affrescato anch’esso e alto circa 2 metri.
Al suo interno si trova un ciclo pittorico composto da una serie di quattro formelle per lato, divise da fasce rosse e bianche, e che secondo gli studiosi copre un periodo molto lungo, dall’VIII secolo fino al Cinquecento.
Purtroppo gli affreschi presentano uno stato di conservazione molto precario sia per i numerosi casi di vandalismo, sia per l’umidità che trasuda dalla roccia che lentamente li sta cancellando.
Tra le immagini ancora “leggibili” è possibile individuare una Madonna riprodotta sul pilastro centrale e una Crocifissione.
Tra i santi una icona di S. Margherita che regge con la mano destra un martello, a testimonianza dell’episodio dalla Passio greca in cui abbatté il demonio e una di S. Lucia, recante in mano un piatto con gli occhi cavati, entrambe databili alla prima metà del XIV secolo. (S. A. Cugno, Archeologia rupestre nel territorio di Siracusa, 2020)
L’autore con il sign. Salvatore Carpino, allevatore della zona
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