Sin da quando il cristianesimo si affermò definitivamente sui culti pagani, la pratica di contribuire ai bisogni dei sacerdoti attraverso una decima parte del raccolto e del lavoro umano, iniziò a diffondersi in tutto l’Occidente
Tale prassi trovava fondamento negli stessi testi sacri secondo i quali ogni cosa apparteneva a Dio: Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e inquilini.
Perciò, in tutto il paese che avrete in possesso, concederete il diritto di riscatto per quanto riguarda il suolo.
(Levitico 25, 23-24) Dal VI secolo, dopo i concili di Tours e di Macon, su richiesta delle chiese locali, si ebbe una evoluzione che di fatto le rese obbligatorie, finché Carlo Magno, nel IX secolo, impose formalmente la decima sacramentale a tutti i sudditi dell’Impero, estendendola anche alle terre di regio demanio.
Le prescrizioni dell’imperatore non ebbero però vigore in Sicilia, soggetta dapprima alla dominazione bizantina e successivamente a quella araba.
Con la restaurazione della cristianità a seguito della conquista normanna, Ruggero d’Altavilla, sul modello carolingio, concesse alla chiesa siciliana non solo le decime sulle terre del demanio regio ma anche su tutti i proventi del fisco.
Inoltre i sovrani normanni assegnarono alle diocesi, ma anche a numerose abazie e conventi, una moltitudine di beni territoriali da cui ricavavano ulteriori fonti di reddito.
Se qualche informazione sulle concessioni territoriali del tempo normanno ci è pervenuta attraverso l’opera di Rocco Pirri, nessun documento superstite ci consente di conoscere quali tipi di decime riscuoteva la chiesa siracusana durante il regno degli Altavilla.
Ne sappiamo di più a partire dall’età angioina quando, ad istanza del vescovo Simone da Lentini e dei canonici della cattedrale di Siracusa, nel 1275, re Carlo d’Angiò ordinò un’inchiesta affinché fossero accertati i diritti vantati dalla diocesi. Sulla fede di prove testimoniali, rese da laici ed ecclesiastici, dinanzi al giudice e notaio della città, Giuliano de Aurobella, fu redatto un documento (a noi giunto attraverso una copia settecentesca) che ci consente di conoscere per la prima volta il tipo di gabelle regie riscosse in diverse città allora soggette all’autorità del vescovo siracusano.
- · L’intera decima dei diritti della curia di Siracusa cioè: sui mercati, sui pesi e le misure, sulla dogana di mare e di terra, sulla farina, sui barbieri e i salassatori, sui bagni pubblici, sui macelli, sul gioco, sulle pescherie, sull’erbatico, sulle tintorie, sulle rendite censuali, sul culto degli ebrei e sul terratico;
- · L’intera decima di tutti i diritti e proventi delle curie di Butera, Mineo, Palagonia, Avola, Palazzolo, Buscemi, Sortino, Ferla, Buccheri e loro territori;
- · La metà della decima dell’antica assisa di Caltagirone e l’intera decima della tintoria della stessa città;
- · Due parti delle decime delle curie di Noto, Lentini, Ragusa, Spaccaforno (Ispica) e loro territori;
- · Le intere decime dei casali di: Magrentino, Bidini, Floridia e Monasteri (Siracusa) Scordia Inferiore, Rahalbiato, Silvestro e Pedagaggi (Lentini) Misilini, Longarini, Rosolini, Favara, Bibino, Gulfi e Respensa (Noto): Catalfaro, Aquila e Cucara (Mineo) e dei territori di Commatino, Fardette, Garsiliato, Niscemi, Odigrillo (Acate);
- · Inoltre la chiesa siracusana riscuoteva l’intera decima sul fiume e il lago di Lentini, sul fiume e il lago di Camarìna, sulla tonnara di Capo Passero, sulla salina della Marza e 45 tari d’oro sulla tintoria di Eraclea (Gela).
La chiesa siracusana godeva dunque alla fine del Duecento della decima parte degli introiti di gran parte delle città e casali posti sotto la giurisdizione del suo vescovo e dei redditi provenienti dai suoi numerosi feudi.
Un patrimonio che per quanto grande non reggeva però il confronto con i ricchissimi vescovati di Palermo e Monreale il cui reddito era enormemente superiore a quello della diocesi siracusana, una delle “più povere” dell’intero regno.
Se gran parte del patrimonio terriero diocesano venne progressivamente alienato ed usurpato già nel corso del Trecento gli introiti derivanti dalle decime continuarono ad essere incamerati sia durante la dominazione aragonese, sia durante il vicereame spagnolo.
Un deliberato del Concilio di Trento (1545-1563), che riaffermava il principio della obbligatorietà delle decime, dispose addirittura la comminazione della scomunica per coloro che non le pagavano.
La soppressione definitiva delle decime ecclesiastiche in Sicilia avverrà solo per effetto di una legge del 1887, mediante la quale lo Stato liberale abolì “le decime e le altre prestazioni, sotto qualsiasi denominazione e in qualunque modo corrisposte, per l’amministrazione dei Sacramenti o per altri servizi spirituali”
Per saperne di più:
R. Pirri, Sicilia Sacra, 1630-1649.
E. Conti, Le decime regie della chiesa siracusana, in” Archivio storico siracusano”, III-1974.
H. Bresc, Clero e nobiltà nella Sicilia tardomedievale, in “Galleria”, 2-2021.
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