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Microstoria e teorie dure a morire

di Marco Monterosso
Microstoria e teorie dure a morire

Tra le innumerevoli generalizzazioni di cui è costellata la storia siciliana e di cui ognuno di noi si è imbevuto attraverso romanzi e film, ma anche attraverso una certa saggistica, il tema del ruolo della nobiltà e del rapporto tra le diverse classi sociali è forse uno dei più emblematici.

Secondo questa vulgata gli aristocratici, avendo avuto la fortuna di nascere in una famiglia che gli aveva tramandato possedimenti e ricchezze, vivevano di rendita sfruttando il lavoro altrui e godevano di una ampia impunità che gli consentiva di macchiarsi di ogni illecito e crimine.

Erano insomma dei parassiti sociali che, sostenuti e spalleggiati dal potere monarchico, soggiogavano i ceti più deboli sfruttandone le necessità. Inoltre, dato che è innegabile che una società feudale era anche una società classista, i rapporti tra ceti diversi non solo erano rigidamente regolati da norme basate sulla diseguaglianza ma erano strettamente limitati al rapporto di sfruttamento che ne era all’origine.

In realtà numerosi studi, soprattutto nell’ultimo trentennio, hanno ormai chiarito che c’era ben altro e che questa semplicistica lettura della società di età moderna è stata generalmente indotta, dapprima dalla letteratura prodotta nella seconda metà del Settecento per sostenere la politica riformista borbonica poi, nel corso del novecento, attraverso un’accurata selezione dei campi di ricerca, per confutare determinate ragioni ideologiche.

Tuttavia se studi e saggi possono apparire inaccessibili e perché no, alcune volte, anche noiosi al grande pubblico, alcuni piccoli, e apparentemente insignificanti, fatti storici possono invece aiutare a mettere in discussione suggestioni e teorie come questa. Un esempio è dato a mio avviso, da un atto di battesimo, conservato nell’archivio parrocchiale di Belvedere, datato 14 luglio 1633. Ma cosa racconta e chi sono i protagonisti di questa piccola storia qualunque ?

Il documento è redatto da tale Fra’ Michele, un monaco agostiniano proveniente da Messina, che in quel momento cura la parrocchia del paese in quanto la sua comunità religiosa gode di un beneficio, riscosso per una piccola parte in denaro, il resto in natura.

Dichiara di aver battezzato un bambino a cui ha posto il nome di Sebastiano Bonaventura, questi è il figlio legittimo di Mariano Pandolfo di Sortino e di Antonia Giulianello di Melilli. Hanno fatto da padrini al bambino il principe Giuseppe Bonanno e la moglie di questi, la principessa Dorotea Nava che, si specifica, è catanese.

Occorre però qualche altro elemento per capire l‘importanza di quest’atto in relazione allo stereotipo di cui abbiamo accennato prima.

I padrini sono infatti, non solo esponenti di spicco di una delle maggiori famiglie aristocratiche siracusane, ma anche i feudatari di Belvedere che, con il consenso del Senato siracusano, è in fase di costruzione dal 1627.

Mariano Pandolfo è invece un colono trasferitosi a Belvedere a ridosso della fondazione della nuova città e che, il 17 Gennaio 1630, ha ricevuto, dallo stesso principe Bonanno, circa 7 ettari di terra in censo.

Dunque il Pandolfo è sostanzialmente un contadino, uno dei tanti che non possedendo terra propria, nel corso del Seicento, lascia il suo paese natale (terra feudale anch’essa) per approfittare delle nuove opportunità che sembra offrire la nuova città.

Ma se il Pandolfo è un contadino e il Bonanno un aristocratico come mai quest’ultimo ha accettato di fargli da padrino ? Come si concilia, nella logica di un rapporto di classe, la scelta del Bonanno di accogliere nel proprio nucleo familiare allargato un contadino come il Pandolfo ?

Semplicemente in nessun modo poiché, anche in una società in cui dominava la diseguaglianza, i rapporti, non solo non potevano essere a “compartimenti stagni”, ma subivano processi di evoluzione né più né meno come la stessa società in cui si generavano.

E sembrano evolversi non solo in relazione alle diverse epoche ma anche, e soprattutto, in relazione agli interessi economici che ne erano alla base. Già vent’anni fa, studiando il caso della fondazione di Belvedere, mi sono spinto al punto da considerarla come un’iniziativa in cui il feudatario e i coloni sembravano mettere in campo una sorta di “impresa associata”.

Ammesso che il caso di Belvedere rappresenti un’eccezione, in un’epoca che ci ostiamo a considerare come dominata esclusivamente dallo sfruttamento delle classi subalterne, può in ogni caso rappresentare un buon indizio per provare a mettere in discussione alcuni stereotipi sul nostro passato.

Microstoria e teorie dure a morire

Archivio parrocchiale di Belvedere, “liber nascitorum“, 1630-1709
In copertina: “I bari”, Caravaggio, 1594, conservato nel Kimbell Art Museum di Fort Worth (USA)

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