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nel tardo Medioevo

Siracusa: mercato di schiavi

di Marco Monterosso
Siracusa: mercato di schiavi

Nel corso del Trecento, sia per la sua posizione geografica, sia per la disponibilità di un ampio porto naturale, Siracusa divenne uno dei maggiori centri del mercato siciliano degli schiavi

Il fenomeno, ereditato dall’antichità, aveva ripreso vigore a causa della drastica contrazione della popolazione, che nel 1375 non superava i 300.000 abitanti e che, già nel 1328, aveva spinto re Pietro ad ordinare ai siracusani di “non trasferire dalla Sicilia gli schiavi verso la Romania, Cipro o Alessandria, dato che la Sicilia manca di popolazione”.

Il commercio appare talmente florido che “tra Siracusa e il litorale ai piedi dell’altopiano di Barca, cui facevano capo le carovane provenienti dal Sahara, la tratta dei negri non conosceva soste”.

In questa fase non sembra che i mercanti siracusani fossero direttamente coinvolti nella cattura degli schiavi che invece acquistavano, spesso in società con mercanti catalani, in cambio di grani siciliani e calabresi.

(G. Campagna, Note sulla schiavitù in Sicilia tra tardo Medioevo e prima età Moderna, 2019).

Il commercio degli schiavi non riguardava però solo mori della Cirenaica e dell’isola di Gerba, su cui Siracusa godeva di una sorta di monopolio, ma anche cristiani, seppur non cattolici, come greci e tartari oltre a un numero limitato di albanesi, bulgari, russi e circassi.

Per giustificare la riduzione in schiavitù di gente cristiana nei contratti era espressamente indicato che la vendita riguardava non già la persona ma le opere e i servizi da questa prestati, “vendidit operas et servicia”, inoltre la legislazione del 1310 di Federico III disponeva che i servi “greci”, se accettavano di convertirsi al cattolicesimo, dovessero essere manomessi dopo il settimo anno di servizio.

Nel caso invece di mori e saraceni, non si andava tanto per il sottile e la vendita era effettuata “ad usum ferae” e ad “usum machazenorum”.

Nel primo caso, cioè nei pubblici mercati, il venditore non era responsabile dei vizi e dei difetti occulti o manifesti dello schiavo, nel secondo, cioè nei magazzini, il compratore poteva invece intentare un’azione redibitoria qualora, entro un certo termine, tali vizi e difetti si fossero rivelati.

Dato che tra le due sponde del Mediterraneo il fenomeno appare trasversale, anche numerosi siciliani erano però ridotti in schiavitù cosicché si diffuse la pratica, da parte di “pii testatori”, di istituire specifici lasciti testamentari destinati alla liberazione degli schiavi prigionieri in “partibus saracenorum”.

Per far fronte al problema nella prima metà del Trecento Federico III istituì un vero e proprio ufficio regio, incaricato di gestire la liberazione dei siciliani, mediante i fondi dei lasciti. Nel 1371 Federico IV ratificò invece la concessione della cittadinanza siracusana al mercante fiorentino Lazzaro Vannini, per i meriti acquisiti nell’aver speso grosse somme di denaro per riscattare schiavi in Barberia.

Nel XV secolo l’attività corsara del naviglio musulmano, diventando sempre più aggressiva, determinò l’iniziativa di diversi armatori siciliani che approntarono le loro navi per riprendere su vasta scala questa attività, già ampiamente praticata e considerata altamente remunerativa.

Nel 1433 re Alfonso V, con l’intento di incrementare l’interesse intorno ad una così prospera fonte di guadagni, stabilì l’esenzione della gabella regia del biscotto per tutti coloro che avessero intrapreso la lotta agli infedeli ricevendo in cambio dagli armatori, una volta detratte le spese, un quinto della preda fatta. (G. Bonaffini, Corsari schiavi siciliani nel mediterraneo, 2002)

L’avallo della corona fece sì che quasi tutte le città marinare della Sicilia, grandi o piccole, divennero centri propulsori di tale pratica marinara che in breve rivelò il suo stretto legame col mercato della schiavitù, e come quest’ultimo, risultando funzionale al sistema produttivo isolano, era considerato “un non disdicevole investimento” (I. Peri, La Sicilia dopo il Vespro, Bari 1990)

Seppur in questo campo furono protagonisti soprattutto armatori messinesi e trapanesi, Siracusa continuò a svolgere il suo ruolo di emporio siciliano degli schiavi anche nel XV secolo, in un’epoca in cui “non vi fu località in Sicilia, dalla città opulenta al misero casale, dove non vi fossero schiavi in numero rilevante proporzionatamente al numero di abitanti”. (M. Gaudioso, La schiavitù domestica in Sicilia dopo i Normanni, 1926)

Siracusa: mercato di schiavi

A Siracusa il commercio degli schiavi interessava vasti strati della popolazione con un rilevante ruolo giocato dalla comunità ebraica che, già nel 1376, era stata tutelata dal sovrano nel “possesso degli schiavi infedeli dalle pretensioni degli inquisitori, dei vicari del vescovo e di altre persone ecclesiastiche”.

In un atto, datato 30 aprile 1432, l’ebreo Salomonello Catalano affidava ad un membro dell’equipaggio di una imbarcazione veneziana, uno schiavo “maurum tripolinum nomine Zayr”.

Questi doveva essere condotto a Tripoli o a Tunisi per essere riscattato per la somma di 85 “auri tripolini novi”, il prezzo si poteva abbassare ma fino ad un massimo di “7 dubli”, altrimenti lo schiavo doveva essere riportato indietro.

Nell’atto veniva specificato non solo che la somma guadagnata doveva essere investita nell’acquisto di pepe ma anche che, se il moro fosse morto mentre si trovava in mare o la galera fosse naufragata o catturata dai pirati, il veneziano non poteva essere chiamato a risponderne in giudizio.

(V. Mulè Judaica civitatis Siracusarum, 2013) Una società tra gli ebrei siracusani Leone e Sadicis Castellano e il cristiano Andrea Collorono operava anche a Sciacca, dove vendeva in prevalenza schiavi negri dei Monti Barca e raramente tartari.

Il loro ruolo era forte ancora nel 1490 quando la regina Isabella, viste le forti proteste della “università dei giudei di Siracusa”, fu costretta a revocare un ordine che gli proibiva di praticarne il commercio.

La regina doveva prendere atto infatti che non solo gli ebrei, ma quasi tutti gli abitanti di Siracusa, vivevano del commercio degli schiavi. (S. Simonsohn, Tra Scilla e Cariddi. Storia degli ebrei in Sicilia, 2011)

Siracusa: mercato di schiavi

La cosiddetta “fontana degli schiavi” di Siracusa (XVI secolo)
Foto di Angelo Magnano © angelomagnano@alice.it

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